22.7.10

11/04/10 dom Monte Fuji, (Odawa, Goia, Sutzen, Owarichi), Takadanobaba.

Missione Monte Fuji. Ci allontaniamo da Tokyo per avvicinarci verso quella striscia montuosa che teoricamente si dovrebbe vedere anche da Tokyo, praticamente grazie ai mille grattacieli non si vede nulla, quindi tanto vale prendere qualche trenino e avvicinarsi alla grande montagna. Il tempo sembra graziarci (sembra!) e passiamo dai soliti treni jappi moderni e comodi ai trenini più simili ai tram, (dove tra l’altro incontriamo una coppia di mezza età di coniugi bolognesi, che stava facendo un tour per il Giappone tutto organizzato da loro). Arriviamo a Goia, una piccola piccola località sui monti, ci rilassiamo un po’ mangiando una specie di crepes salata, ma non fatta con l’uovo, bensì con una pasta croccante di riso, che poi viene immersa in salsa di soia e fatta cuocere. Il risultato è qualcosa di orgasmatico, infatti prima di tornare a casa ne abbiamo prese qualcuna confezionate, ma non erano buone come quella artigianale fatta da questo vecchino che appena scoperto che venivamo dall’ItaRia ha iniziato a dire le quattro parole in italiano che sapeva (era stato a Roma) come “ciao, pasta, bella, spaghetti” e io di rimando gli ho insegnato (o almeno credo) che anche da noi ci sono delle cose simili a quelle che stava cuocendo, che chiamiamo “piadina”, e lui l’ha pure ripetuto. Quindi la scena era questo vecchino jappo compresso e rugoso con questa crepe in mano che diceva “piadina, piadina, piadina” a me. Quasi quasi gli potevo consigliare un gemellaggio Balze-Goia. Ovviamente ancora non si vedeva un tubo di monte Fuji, e capiamo da una mappa che ci sono diversi punti di avvistamento, per raggiungere quello più vicino a noi è necessario prendere un altro trenino e la funivia. Vado al piccolo ufficio turistico per informarmi su orari, modalità e prezzi, e davanti a me mi ritrovo una vecchina jappa che ovviamente non sa una parola di inglese. Inizia un dialogo gestuale sulle mappe, con ogni tanto l’intrusione di un jappo che provava a tradurre in inglese qualche parola. La conclusione della vicenda è bellissima: la signora fa segno di avere una botta di genio, e mi scrive in giapponese le informazioni che mi servono (presumo orario e prezzo dei treni e funivia), quindi io mi ritrovo con un foglietto di scarabbochi in mano, e ovviamente ne so quanto prima. Però lei mi guarda con un sorriso dolcissimo e non riesco ad insistere, ma ringrazio inchinandomi e vado. Alla fine davanti ad un pannello della stazione riusciamo a comprendere che dobbiamo prendere un altro treno fino a Sutzen, poi da lì prendere la funivia fino a Owarichi (che abbiamo scoperto dopo essere una località piena zeppa di sorgenti solfatare, quindi non vi dico che buon odore). Il treno Goia - Sutzen ha una pendenza tale che funziona con un sistema di cavi, per cui va su un treno e scende l’altro e viceversa. La funivia era tipicamente efficiente, con tanto di vocina registrata all’interno, che ti dava il benvenuto pubblicizzando tutta la linea. Insomma arriviamo al punto di osservazione formato da una specie di autogrill (che come mascotte aveva un “Hello Kitty” con un uovo nero, tipico uovo cotto nelle solfatare, che sarà una ricetta tipica del posto) e da un terrazzo, inaliamo tutta la fantastica aria fornita gentilmente dalle solfatare e NON vediamo il Monte Fuji. La giornata è chiara e limpida, ma ovviamente esattamente davanti a dove dovrebbe essere il monte c’è una bella schiera di nuvole, e non si vede nulla di nulla. Il tutto susseguito da un momento di panico: eravamo attorniati da jappi tutti con un cappello da baseball con scritto Australia. Perché? Mistero.
Aspettiamo un po’ ma le nuvole al posto di calare aumentano, quindi rientriamo dopo aver fatto un giretto nell’autogrill cercando cartoline che non abbiamo trovato. Per consolarci dallo zolfo e dal monte Fuji mancato (con la speranza inesistente di vederlo nei giorni successivi dalla Tokyo Tower) torniamo a Goia e prendiamo un gelato, e vogliamo farci del male prendendo i gusti tipici jappi, ovvero “Sakura” (ciliegia) e Tè verde. Io e Alberto abbiamo in mano questi 2 coni, uno rosa e l’altro verde acido. Se i colori non erano un gran chè, i sapori forse erano anche peggio.
Ritrovati con gli altri del gruppo che sono rimasti nei pressi di Goia, torniamo verso Tokyo, e per cena decidiamo di provare un sushi su nastro nel quartiere di Takenobaba (quartiere dov’era la Ryokan degli altri). Finalmente in un vero tentai (o come si scrive) con tanto di rubinetto di acqua calda dove mettere sotto il bicchiere e fare il tè verde. Siamo solo 12, quindi occupiamo tutto il ristorante, riempiamo il tavolo di piattini e spendiamo pure poco per la quantità di sushi ingurgitata. Tra l’altro impariamo pure una cosa. Al posto di chiedere birra, richiediamo il sakè, e ad un certo punto arriva un cameriere con un piattino di sushi al salmone (perché potevi anche richiedere il piattino che volevi), praticamente abbiamo scoperto che “sakè” può voler dire anche salmone! Abbiamo anche scoperto che il sakè loro non ce l’hanno, e ci hanno consigliato di prenderlo al Combini. Dopo averne sperimentati diversi tipi siamo arrivati alla conclusione che quello più buono (oltre alla bottigliona presa una volta) è quello con l’etichetta blu, perché ha una sapore molto meno amaro e più fruttato, e va giù come se niente fosse. Per digerire facciamo un giro per le sala giochi cercando un Dance Revolution che non abbiamo trovato, finendo per giocare al gioco dei tamburi giapponesi (sempre gettonato) e quello di batteria. Infine metro - birra Combini - futon.

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